Il paradosso del paziente, dall’abbandono alla sovradiagnosi

Il buon medico di famiglia, è ormai diventato un lontano ricordo sbiadito

Oggi rischi di essere trattato anche se sei sano, ma vieni abbandonato quando avresti più bisogno…

“Il Paradosso del paziente” di Margaret McCartney, medico di medicina generale a Glasgow

“Se sei malato, devi essere paziente e determinato nel chiedere aiuto; se invece stai bene, sei a rischio di ricevere esami di screening non richiesti, di assumere trattamenti preventivi per malattie che non svilupperai mai, o terapie non necessarie”.

Se pensi che sottoporsi a screening periodici sia equivalente di fare prevenzione e fai spesso check up per essere sicuro di non avere malattie invisibili e non ancora manifestate da sintomi, pensando che una volta trovate, abbiano poi un reale significato, allora non dovresti leggere questo articolo.

Lo dico perché ti metterebbe sotto sopra rispetto a quanto ti è sempre stato detto e ripetuto dai media per convincerti ad entrare negli screening di massa.

Se invece hai subìto danni da sovrastima della diagnosi e sovra trattamento, come è successo a me con il Ca duttale in situ nel 2008, allora sarai curioso/a di sapere di più, perché il fenomeno della SOVRADIAGNOSI è molto più diffuso di quanto si possa pensare.

Quando decidono di fare rientrare una qualche patologia negli screening di massa hanno fatto già i conti sul rendimento dell’operazione. Cioè a fronte della spesa per l’esame, quanto si ricava dall’avere riscontrato una elevata incidenza di patologie, quanti farmaci e servizi verranno coinvolti, e quindi la macchina del sistema si muove per lo screening creando guadagni.

Ma quando chiediamo, ad esempio, di fare più esami per la vitamina D la ritengono inutile. Questo perché correggere i livelli di vitamina D portando a diminuire le carenze a livello mondiale, si andrebbero a toccare gli equilibri del sitema, impedendogli di creare altri malati attraverso gli screening di massa. Questo perché la carenza di vitamina D ha una correlazione con quasi tutte le patologie.

Quando tutta una società si organizza in funzione di una caccia preventiva alle malattie, la diagnosi assume i caratteri di un’epidemia.

Ivan Illich

“Ti capita di sentirti stanco la mattina? Potresti soffrire della sindrome del testosterone basso.”

“Tuo figlio è molto attivo? Attenta, potrebbe trattarsi del disturbo da deficit di attenzione-iperattività.”

“È essenziale trattare sempre il prediabete per evitare complicanze.”

Ricevere una diagnosi, di solito, è il primo passo verso la cura. In alcuni casi, tuttavia, ricevere una diagnosi è solo l’inizio di una cascata di problemi. Per esempio, quando una persona riceve la diagnosi di una patologia che non avrà alcun effetto sulla durata o sulla qualità della sua vita, ci troviamo di fronte a un caso di sovradiagnosi.

Secondo una definizione condivisa, la sovradiagnosi è “l’attribuzione a una persona di un’etichetta di malattia o di anomalia che non avrebbe recato alcun danno a quella persona anche se non fosse stata scoperta, la creazione di nuove diagnosi attraverso la medicalizzazione di esperienze di vita ordinaria o l’espansione di diagnosi esistenti attraverso l’abbassamento delle soglie o dei criteri di malattia, senza evidenza di un miglioramento degli esiti. Gli individui non traggono alcun beneficio clinico dalla sovradiagnosi; d’altra parte, a causa di questa possono subire danni fisici, psicologici ed economici”.

Le dimensioni di questo problema non sono trascurabili. Ad esempio, uno studio condotto in Australia che ha preso in considerazione 5 tipi di tumore (mammella, prostata, rene, tiroide melanoma) ha stimato che tra 18 per cento e 24 per cento di questi tumori potrebbe essere sovradiagnosticato.  Ma la sovradiagnosi non riguarda solo i tumori ma interessa patologie eterogenee per settore e per età come la sindrome dell’ovaio policistico, il prediabete, il deficit di attenzione-iperattività, gli aneurismi aortici ecc.

Per comprendere rapidamente il concetto di sovradiagnosi è sufficiente recarsi a uno dei (rari) congressi medici che sono incentrati su quest’argomento e osservare le slide che presentano i relatori. Dopo poco, l’osservatore noterà che tende a ricorrere un certo tipo di grafico che assomiglia a una forbice (vedi grafico) e in cui è rappresentato l’andamento nel tempo di due variabili: l’incidenza di una malattia e la mortalità per quella malattia.

Quando si effettua per esempio uno screening per la ricerca di una neoplasia, osserviamo un impennarsi della curva di incidenza di quella neoplasia a partire dall’introduzione dello screening, come conseguenza attesa dell’aumentato riscontro; per coerenza, ci aspetteremmo che in parallelo all’aumentato riscontro della neoplasia, la curva della mortalità decrescesse come risultato di un trattamento più precoce. Tuttavia, questo può non accadere e la curva della mortalità, anziché decrescere come atteso, può rimanere analoga al periodo che ha preceduto lo screening.

Quando presente, questo fenomeno è suggestivo della presenza di sovradiagnosi di una malattia.

Purtroppo, fare più diagnosi non sempre significa aumentare la sopravvivenza o migliorare la vita delle persone. Curve simili vengono comunemente presentate riguardo al caso degli screening dei tumori tiroidei, mammari, di melanoma cutaneo o di tumore prostatico.

I due determinanti principali della sovradiagnosi sono:

  1. la decisione di estendere i criteri per definire una malattia (sovra-definizione),
  2. l’eccessiva facilità di rilevazione di una malattia (sovra-rilevamento).

Per esempio: Abbassare la soglia da 140 a 130 mmHg per definire la presenza di ipertensione arteriosa, senza che vengano migliorate la qualità o la quantità di vita delle tante persone che hanno ricevuto questa diagnosi, è un esempio di sovra-definizione. Lo stesso può dirsi per numerosi altri fattori di rischio riguardo ai quali, negli ultimi anni, è stata osservata una graduale estensione dei criteri diagnostici, come i livelli di colesterolemia o di glicemia.

Il sovra-rilevamento, invece, fa riferimento al comune riscontro di anomalie destinate a non progredire, a regredire, oppure a progredire così lentamente che non avrebbero mai determinato alcun problema per la persona anche se non fossero state diagnosticate. Il sovra-rilevamento è quindi correlabile con l’uso sempre più diffuso di tecnologie diagnostiche ad alta risoluzione in grado di documentare molteplici anomalie di incerto significato.

Per esempio, nei pazienti che vengono sottoposti ad angio-Tc toracica per il sospetto di embolia polmonare, il riscontro di rilievi incidentali che richiedono un follow up è stato riportato come molto più probabile rispetto al rilievo degli emboli polmonari per i quali l’esame era stato richiesto.

Non solo, ma l’angio-TC toracica è un esame così sensibile da  documentare piccoli emboli polmonari sub-segmentali – anch’essi di incerto significato – che potrebbero non richiedere alcun trattamento.

Quindi, la sovradiagnosi è una diagnosi reale, e non una diagnosi sbagliata, né tantomeno un risultato falsamente positivo di un test diagnostico. Si tratta di una diagnosi effettiva, come per esempio una lesione di un distretto avvalorata dalla conferma istologica di neoplasia.

In un recente saggio sulle origini del nome, Scott Podowsky, direttore del  Centro per la storia della medicina ad Harvard, ricorda che una delle prime menzioni del concetto di sovradiagnosi risale al 1924, anno in cui, in occasione di una conferenza a Ottawa un medico canadese, di nome James Douglas Adamson, tenne un discorso su come gli avanzamenti nella cura della tubercolosi avessero stimolato una corsa alla “diagnosi precoce, come conditio sine qua non di un trattamento adeguato”.

Il problema, notò già allora Adamson, era il sottoprodotto della diagnosi precoce, cioè la sovradiagnosi di lesioni polmonari di incerto significato:

  • “un male per i pazienti, psicologicamente, economicamente e fisicamente;
  • un male per i medici mentalmente e moralmente;
  • un male per il paese, economicamente”.

Un fenomeno in crescita

Se già nel 1924 si affacciava alla comunità scientifica la consapevolezza della sovradiagnosi, ci sarebbero voluti ancora molti anni perché il termine cessasse di essere un concetto astratto.

Dal 1924 al 2002, anno in cui ci siamo laureati, gli articoli indicizzati su PubMed contenenti il termine sovradiagnosi erano appena 639, mentre solo negli ultimi dieci anni ne sono stati pubblicati 3313.

Perché questo aumento? Il nodo che lega gli avanzamenti tecnologici e della ricerca farmaceutica con grandi interessi economici ha certamente avuto un ruolo di primo piano. Così come, negli anni Venti del ‘900, l’avvento dei sanatori fece accrescere la domanda di una diagnosi precoce (e quindi sanabile) di tubercolosi, così in epoca contemporanea il raffinamento tecnologico degli esami diagnostici e quello farmaceutico delle terapie hanno condotto ad un abbassamento della soglia di diagnosi di varie condizioni nonché alla comparsa di nuove diagnosi.

Negli anni Cinquanta, per esempio, l’ipertensione arteriosa veniva trattata con farmaci a elevata tossicità o addirittura con improbabili soluzioni chirurgiche; l’arrivo dei diuretici tiazidici, farmaci efficaci, relativamente sicuri e di facile impiego, permise ai medici di rendere il trattamento alla portata di un’ampia popolazione, ma – sostiene il clinico e storico Jeremy Greene – spianò anche la strada ai tentativi commerciali di ampliare progressivamente l’etichetta della diagnosi di ipertensione.

Un altro dei prodotti dell’alleanza tra progresso tecnologico e interessi economici è il cosiddetto fenomeno dell’over-selling, tangente alla sovra-definizione di malattia; ovvero la trasformazione in malattie di esperienze spiacevoli, spesso di lieve entità e in molti casi transitorie come attraversare un momento di tristezza, di difficoltà di concentrazione o di insonnia. Alla base dell’over-selling c’è un interesse nei confronti dello spostamento della linea di malattia verso la normalità.

Se, fino a pochi anni fa, la tristezza veniva considerata in prima battuta un fenomeno reattivo e transitorio, oggi rischia invece di essere etichettata precocemente come sindrome depressiva.

Etichetta che non giova al paziente, ma che può giovare certamente all’industria.

  • Che una diagnosi “in più” possa rappresentare una fonte di danno per la persona che la riceve è un concetto tanto pervasivo nella medicina contemporanea quanto poco intuitivo.
  • Se una persona effettua un ecocolordoppler dei tronchi sovra-aortici per il rilievo di un soffio carotideo e nel corso dell’esame viene incidentalmente rilevato anche un nodulo tiroideo, questo riscontro “in più” può essere fonte di preoccupazione, ma difficilmente sarà considerato come una potenziale fonte di danno.
  • Secondo la strategia del “più è meglio” o del “prevenire è meglio che curare”, molte persone che non lamentano alcun problema di salute si sottopongono a check-up nella speranza che una diagnosi “precoce” possa migliorare la durata o la qualità delle loro vite.
  • Tuttavia, riguardo a questo, i risultati della letteratura scientifica tendono ad andare in una direzione tanto inaspettata quanto contro-intuitiva.

Quando gli screening sono inutili e dannosi

In un report del gennaio 2021 che ha revisionato in modo sistematico gli studi randomizzati sullo screening cardiovascolare, l’Organizzazione mondiale della salute (Oms) si è pronunciata a sfavore dell’utilità di questo tipo di indagine nella popolazione generale.
Gli autori del report hanno esaminato 22 studi randomizzati, di cui 14 sullo screening del profilo di rischio cardiovascolare, quattro sulla ricerca di aneurismi dell’aorta addominale, due sulla fibrillazione atriale e due sullo screening di condizioni cardiovascolari in combinazione. Nessuno degli studi esaminati ha rilevato una riduzione della mortalità o morbilità cardiovascolare né della mortalità totale nei soggetti sottoposti a screening rispetto ai soggetti non sottoposti. Sulla base dell’assenza di prove di un beneficio netto dello screening, l’Oms ha quindi ritenuto che ci siano elementi a sufficienza per controindicare programmi nazionali o regionali di screening cardiovascolare di popolazione.

Ma non solo una sovradiagnosi può rivelarsi inutile; quello che è peggio è che può rivelarsi anche dannosa.

I risultati di una revisione sistematica Cochrane sullo screening mammografico sono un esempio rappresentativo. La revisione ha evidenziato che, ogni 2000 donne tra i 39 e i 74 anni invitate a uno screening mammografico annuale, solo una eviterà nei dieci anni successivi di morire per tumore mammario, al prezzo di 200 donne che subiranno le conseguenze fisiche e psicologiche di una falsa diagnosi (casi falsamente positivi) e di 10 donne con una sovradiagnosi di tumore mammario (ovvero un tumore sottoposto a interventi medici che, se fosse rimasto non diagnosticato, non avrebbe comunque diminuito la sopravvivenza).

Questo non significa che dovremmo avere un atteggiamento nichilistico verso interventi medici come lo screening, ma significa invece che dovremmo, caso per caso, informare i pazienti dei benefici e dei rischi degli interventi medici, siano questi farmaci o test diagnostici.

Nel caso di alcuni screening, tra i rischi dovremmo riportare chiaramente anche la sovradiagnosi e le sue conseguenze.

Cosa possiamo fare per prevenire la sovradiagnosi

Per mitigare il fenomeno della sovradiagnosi o prevenirlo, una strategia è indirizzare gli screening verso gruppi di popolazione a più alto rischio di sviluppare una determinata neoplasia e verificare se, in queste persone, un approccio di screening possa dimostrare un beneficio netto su esiti importanti.

Un altro approccio riguarda lo studio delle lesioni anomale che vengono rilevate agli esami istologici. Esiste, infatti, notevole variabilità tra osservatori nella diagnosi di preparati istopatologici con caratteristiche ambigue per neoplasia. Effettuare studi prospettici o di sorveglianza attiva sull’andamento di lesioni molto precoci, piccole o con caratteristiche ambigue potrebbe essere di aiuto per definire quali tra queste siano destinate o meno a evolvere sfavorevolmente.

Similmente, è importante osservare nel tempo l’evoluzione di incidentalomi, così da individuarne le caratteristiche che aumentano la probabilità di progressione sfavorevole nei vari distretti corporei e indirizzare di conseguenza le decisioni cliniche.  

Potremmo poi lavorare sulle le parole – che sono sempre importanti.

Sappiamo, ad esempio, che la prognosi dei pazienti con tumore tiroideo papillare a basso rischio è la stessa sia che si opti per una sorveglianza attiva che per un intervento chirurgico;

lo stesso vale per il carcinoma mammario duttale in situ a basso rischio. Sulla base del basso rischio di progressione della maggior parte di lesioni di questo tipo, anche se non trattate, alcuni ricercatori hanno proposto di non definirle più “tumore” o “cancro”, bensì “lesioni indolenti a basso potenziale di malignità”, alleggerendo in questo modo il peso di una diagnosi che diventa un’etichetta.

Ricevere una etichetta di malattia sposta ognuno di noi, individui irripetibili, in un territorio impersonale e vulnerabile che presenta specifiche regole da seguire oltre che una lunga scia di conseguenze: ricordarsi di dover assumere un trattamento a orari precisi, fissare appuntamenti, spostarsi per raggiungere l’ospedale o l’ambulatorio o la farmacia, subire eventuali effetti collaterali dei trattamenti, conseguenze psicologiche, economiche etc.

Altri tentativi di arginare la sovradiagnosi riguardano una diversa modalità di rimborso degli interventi: nei distretti statunitensi e canadesi in cui le autorità avevano sospeso i rimborsi per alcune pratiche mediche ritenute di scarso valore sulla base delle prove scientifiche disponibili, le sovradiagnosi legate a queste pratiche sono crollate insieme alla prescrizione delle pratiche stesse.

Molto possiamo fare anche attraverso la ricerca scientifica: uno studio molto recente, per esempio, ha randomizzato un gruppo di donne in gravidanza ad una definizione standard oppure più ampia di diabete gestazionale e ha poi confrontato benefici e rischi di queste diverse definizioni di malattia. Nelle donne con una definizione più ampia – e quindi con una soglia diagnostica più bassa – di diabete gestazionale non sono stati rilevati benefici in termini di minore probabilità di macrosomia del neonato e in queste stesse donne sono stati riportati più rischi legati proprio alla cura (maggiore frequenza di induzione del parto, uso dei servizi sanitari e di farmaci, ipoglicemia neonatale).

Infine, possiamo prevenire la sovradiagnosi rendendone più consapevoli le persone, per esempio ponendola all’attenzione pubblica nella comunicazione della scienza sia da parte dei ricercatori che da parte dei media.

Per il bene del paziente

Porre all’attenzione pubblica il concetto e i rischi della sovradiagnosi potrebbe anche illuminare il suo complementare e opposto, cioè la sottodiagnosi: a fronte di persone che vengono chiamate a effettuare esami non necessari o vengono curate per condizioni precliniche, ce ne sono altre che, pur essendo malate, faticano per esempio ad avere un appuntamento per un esame o una visita in tempi ragionevoli o a procurarsi le terapie di cui necessitano.

Margaret McCartney, medico di medicina generale a Glasgow, definisce questo fenomeno il “patient paradox”, ovvero,

se sei malato, devi essere paziente e determinato nel chiedere aiuto; se invece stai bene, sei a rischio di ricevere esami di screening non richiesti, di assumere trattamenti preventivi per malattie che non svilupperai mai, o terapie non necessarie”.

L’obiettivo di ogni medico è semplice: far star meglio i propri pazienti. La ricerca e le politiche sanitarie dovrebbero aiutarci quindi a rendere chiaro quando questo obiettivo, pur con tutte le buone intenzioni, viene disatteso.

Camilla Alderighi e Raffaele Rasoini
Associazione Alessandro Liberati – Cochrane Affiliate Centre

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Troppo spesso vengono considerati utili degli interventi solo perché sono molto prescritti o perché corrispondono alle aspettative, reali o indotte, più popolari in quel determinato periodo e contesto. Un rigoroso esame delle prove disponibili relative agli interventi sanitari e del rapporto rischi/benefici sarebbe auspicabile sia sotto il profilo etico che economico

25 OTT – Nel  congresso dell’AIE di quest’anno (a Roma il 4,5 e 6 novembre) gli epidemiologi italiani si interrogheranno su quali risorse possono mettere in campo per concorrere a una sanità pubblica sostenibile ed equa, che tenga conto dei cambiamenti demografici, socioeconomici, epidemiologici e tecnologici in atto in Italia e in Europa. E ancora, in che direzione debbano orientare la loro attività di ricerca perché contribuisca al fondamento scientifico di politiche orientate a principi di appropriatezza, costo-efficacia, ecocompatibilità ambientale e giustizia.

La crisi sta imponendo al nostro welfare revisioni e ridimensionamenti che rischiano di minare la sopravvivenza dell’SSN pubblico. Le regioni sono costrette ad adottare misure di “razionamento”, attraverso il taglio di “pacchetti di prestazioni’“e a innalzare i costi dei ticket.
Nella sessione dedicata ad Alessandro Liberati, che si terrà il 5 Novembre nell’Aula III di Matematica de La Sapienza e che è stata curata dalla stessa Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane (www.associali.it) – , verrà affrontato il tema dell’ overdiagnosis e dell’overtreatment, paradossale in questi tempi di tagli alle prestazioni dell’SSN.

“Un tempo le persone chiedevano di essere curate perché si sentivano ammalate, oggigiorno si incoraggiano le persone soggettivamente sane a sottoporsi a tutta una serie di esami diagnostici preventivi per rassicurarle di non essere «ammalate». Il complesso medico-industriale ha sviluppato tecnologie in grado di identificare le più piccole anomalie, ha modificato le soglie che definiscono la «normalità» e «creato» nuove malattie. La grande maggioranza di queste «anomalie» o pseudo-malattie scoperte in persone soggettivamente sane sono inconsistenti, cioè non daranno sintomi o problemi nel corso della vita”. Si apre così l’Introduzione di Gianfranco Domenighetti al libro Sovradiagnosi, di Gilbert Welch, da poco pubblicato anche in Italia (Welch G. Sovradiagnosi. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2013) che verrà presentato proprio in occasione del congresso. Nel libro Welch e i suoi collaboratori della Darmouth University discutono ed approfondiscono proprio  il tema dell’inarrestabile espansione della medicina e della crescente tendenza a fare diagnosi.

Viviamo un epoca in cui ci viene chiesto di essere sempre in forma perfetta e di considerare i segni del tempo che passa,  le rughe, la rottura dei capillari superficiali, i piccoli o grandi acciacchi dovuti all’età, come qualcosa da nascondere, di cui vergognarsi e da cercare di esorcizzare in tutti i modi.
Assistiamo ad una collettiva negazione del processo di invecchiamento e, conseguentemente, della realtà della morte. Lo sforzo costante per essere – o quantomeno per apparire – sani e forti il più a lungo possibile,  ha portato negli ultimi decenni ad un grande sviluppo della diagnostica precoce che, anche attraverso le campagne di  screening,  ha lo scopo di individuare  sempre più precocemente i segni di patologie ancora asintomatiche. Come scrive Domenighetti, “diverse analisi dimostrano l`entusiasmo popolare verso la diagnosi precoce; una ha mostrato  come il 73% degli americani preferisce sottoporsi a un total body scanner invece che ricevere un regalo di 1.000 dollari, mentre il 66% è disposto a sottoporsi a un test di diagnosi precoce anche per un tumore per il quale non esiste nessuna cura. Il 50% delle donne americane che non hanno più il collo dell’utero a seguito di isterectomia totale continua comunque a sottoporsi al test per la diagnosi precoce del cancro al collo dell`utero (Pap-test). Perfino una significativa proporzione ( dal 6 al 27% )  di pazienti affetti da tumori incurabili in stadio avanzato continua a sottoporsi a screening di diagnosi precoce  per altri tumori.”

Troppo spesso , infatti, vengono considerati utili degli interventi solo perché sono molto prescritti o perché corrispondono alle aspettative, reali o indotte, più popolari in quel determinato periodo e contesto. Un rigoroso esame delle prove disponibili relative agli interventi sanitari, siano essi farmacologici, chirurgici, psicologici o diagnostici e del rapporto rischi/benefici sarebbe auspicabile sia sotto il profilo etico che economico.” Come affermava circa quarant’anni fa Archie Cochrane, “le risorse economiche sono e saranno sempre finite e dovrebbero essere usate per offrire in maniera equa alla popolazione interventi sanitari la cui efficacia sia stata dimostrata all’interno di studi scientificamente validi”.
Molta strada è stata fatta verso una più rigorosa valutazione di efficacia degli interventi, si è certamente alzata l’asticella che segnava il livello minimo oltre il quale giudicare efficace un intervento terapeutico, ma non ci siamo forse accorti in tempo che la strategia in atto non era più solo quella dell’introduzione di nuovi farmaci spesso con scarso valore aggiunto, ma quello di aumentare la popolazione bersaglio di possibili trattamenti, quella di creare una popolazione di malati e conseguente bisogno di trattamento. Per anni sono stati e sono condotti studi che valutano la qualità di nuovi test diagnostici solo per la capacità di un test di fare diagnosi rispetto al test già disponibile. Ma in termini di prognosi, qual è l’impatto del nuovo test? Si contano sulle dita di una mano gli studi che valutano quanto un nuovo test, oltre ad individuare più casi, rischi di innescare un meccanismo diagnostico terapeutico che faccia più bene che male. Il libro di Welch e la sessione è un  contributo  per aprire una discussione su un tema, quello della diagnosi precoce, in cui spesso si sorvola sulla necessità di un esame rigoroso delle evidenze disponibili e si accetta tacitamente l’assioma per cui non è necessario una valutazione continua e rigorosa: la diagnosi precoce è utile e basta.”

In conclusione? Domenighetti affida a Ludovico Ariosto il compito di tirare le fila, con una citazione che lui stesso, Domenighetti, ha ormai reso celebre tra gli epidemiologi internazionali: “Un cavaliere, racconta Ludovico Ariosto nell’Orlando furioso, era avvezzo, al termine dei banchetti, a invitare gli ospiti a sottoporsi a quello che oggigiorno si chiamerebbe un test predittivo: la prova consisteva nel vuotare un gran bicchiere colmo di vino senza distogliere la bocca dal calice. Se qualcuno si sbrodolava, ciò significava che la sua donna lo cornificava. Stranamente, dice l’Ariosto, i commensali, forse già ben avvinazzati, con gioia facevano a gara nel sottoporsi a tale prova. Molti si sbrodolavano e allora il loro animo da gioioso si mutava in tetro ed ansioso. Rinaldo ha già il calice in mano e sta per accettare la prova, ma ci ripensa e decide di non farla, dicendo: «Ben sarebbe folle chi quel che non vorria trovar, cercasse. Mia donna è donna, et ogni donna è molle: lasciàn star mia credenza come stasse. Sin qui m’ha il creder mio giovato, e giova: che poss’io megliorar per farne prova?»

Laura Amato
Associazione Alessandro Liberati – Network Italiano Cochrane
25 ottobre 2013


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