E’ difficile regolamentare l’uscita di casa delle persone se si pensa che il virus sia in grado di circolare nell’aria senza alcun vettore capace di tenerlo in vita.
Specie con l’arrivo della bella stagione e la prezza primaverile, sappiamo da tempo che prendere aria, stare al sole è un buon metodo per ossigenarsi e prevenire gli stati di malattia. Cosa è cambiato da un anno a questa parte?
Molti studi suggeriscono che l’uso di mascherina, oltre ad essere inutile all’aperto, è anche dannoso, se portata molte ore durante la giornata.
Gli studi a conferma dell’utilità della mascherina sono pure poco attendibili se si pensa alle numerose attività ed incontri che una persona possa avere durante la giornata. Quindi sarebbe interessante sapere come vengono fatti questi studi.
Ci sono tuttavia alcuni studi che potrebbero essere presi in considerazione dalle autorità che ci tengono ancora prigionieri in casa nostra e portarci ad essere di nuovo liberi di circolare e rendere le persone finalmente piu’ fiduciose l’una dell’altra invece che diffidenti e timorose dell’eventuale untore, come nel recente studio Irlandese dice che senza la mascherina al chiuso ci sono 19 volte piu’ probabilità essere contagiati e che solo 1 su 1000 si contagia all’aperto senza mascherina.
Già mesi fa, in uno studio giapponese, veniva evidenziato che le probabilità di trasmissione del virus in un ambiente chiuso sono 18,7 volte superiori rispetto ad un luogo all’aperto.
Premesso che le ricerche scientifiche di maggior validità sono quelle randomizzate controllate, ci sono poche ricerche con questo disegno sulle mascherine a livello di comunità (cioè non in contesti sanitari o lavorativi, e comunque soprattutto “al chiuso”) e grandi revisioni che le hanno combinate hanno concluso che non ci sono prove adeguate di un’efficacia delle mascherine.
I suggerimenti del dott. Donzelli sarebbero:
- nessun obbligo di portare le maschere all’aperto, salvo eccezioni (ad es. se si conversa a un metro o meno per un tempo consistente, cioè più di 10-15 minuti con qualcuno non convivente);
- nessuna mascherina per gli alunni seduti ai banchi di scuola, con circa un metro di distanza da bocca a bocca;
- niente a domicilio (salvo che in presenza di un positivo alla PCR-RT, quando non è in una stanza da solo e interagisce con i familiari).
In altri ambienti al chiuso, in presenza di altre persone, soprattutto in spazi affollati e poco aerati, una chiara raccomandazione di indossare mascherine è ragionevole. L’importante è restarci lo stretto necessario, e non essere obbligati a tenerle molto a lungo. Ad es. il Governo danese ha stabilito l’uso di mascherina durante grandi raduni, oppure se una persona che sa di essere infetta deve uscire di casa, o se ci si avvicina a persone con alto rischio di sviluppare in forma grave la COVID-19.
Il coronavirus e i nuovi dati sui contagi all’aperto: stiamo sbagliando tutto?
da Today Scienza – Antonio Piccirilli
In Irlanda solo lo 0,1% dei casi noti è riconducibile ad un’infezione avvenuta all’esterno.
Sul tema ci sono vari studi, non tutti attendibili, ma in generale è assodato che i luoghi chiusi ci espongono ad un rischio molto più elevato.
Da qui la domanda: ha senso sconsigliare (o impedire) alla persone di frequentare parchi e spiagge anziché puntare sulla responsabilità individuale?
a cura di Antonio Piccirilli – 6 aprile 2021
Quanto incide la trasmissione del virus all’aperto nell’andamento dei contagi? A quanto pare molto poco. A dirlo, o meglio a suggerirlo, sono i dati riportati dal quotidiano Irish Times che ha chiesto all’Health Protection Surveillance Centre (HPSC), l’ente che monitora la situazione epidemiologica in Irlanda, informazioni dettagliate sull’origine dei focolai noti registrati nel Paese. I numeri ci dicono che dei 232.164 casi di SARS-COV-2 rilevati dall’inizio della pandemia al 24 marzo di quest’anno, solo 262 erano attribuibili ad una trasmissione avvenuta all’aperto. Si tratta dello 0,1% del totale.
In sostanza solo una persona su mille si sarebbe infettata in un luogo non chiuso.
Nel dettaglio secondo l’HPSC sarebbero 42 i focolai associati ad “assembramenti” all’aperto, di cui 21 nei cantieri edili con 124 casi accertati e 20 riconducibili ad attività sportiva e fitness (131 contagi), ma lo stesso ente aggiunge anche che per alcuni di questi focolai non è possibile determinare con certezza “dove è avvenuta la trasmissione”. Va inoltre sottolineato che nel 20% dei casi totali non si sa né in quali luoghi né con quali modalità sia avvenuto il contagio.
Le ricerche sulla trasmissione del coronavirus all’aperto
Uno studio realizzato in Cina all’inizio della pandemia aveva dato risultati analoghi: dall’analisi dei dati su 1.245 casi registrati tra il 4 gennaio e l’11 febbraio 2020 in 320 comuni si era scoperto che su 318 focolai con almeno 3 casi, nessuno era riconducibile ad un’infezione avvenuta all’esterno e solo 2 persone su 1.245 sarebbero state contagiate in un luogo non chiuso. Di contro la maggior parte dei focolai si erano sviluppati tra le mura domestiche (quasi l’80%). In un’altra indagine realizzata da ricercatori dell’Università della California e pubblicato sul Journal of Infectious Diseases viene tuttavia fatto presente che il dato potrebbe essere influenzato dalle restrizioni imposte dal governo cinese.
Gli studiosi hanno passato in rassegna diverse ricerche condotte sui luoghi di contagio dall’inizio della pandemia ad agosto 2020. Tra queste c’è uno studio giapponese in cui viene evidenziato che le probabilità di trasmissione del virus in un ambiente chiuso sono 18,7 volte superiori rispetto ad un luogo all’aperto. I ricercatori californiani spiegano che l’eterogeneità nella qualità delle ricerche fin qui svolte e nelle definizioni stesse di ambiente esterno non permettono di determinare con precisione quanto e in che misura i luoghi outdoor siano sicuri.
Certo è che le segnalazioni di infezioni e talvolta di focolai che si sono sviluppati all’esterno rientrano tra le casistiche note. In generale, la durata e la frequenza dei contatti personali, l’assenza di mascherine e occasionali assembramenti in luoghi coperti, sono tutti i fattori associati alle infezioni registrate all’aperto. Gli studiosi concludono che le prove esistenti supportano sì la convinzione diffusa che il rischio di trasmissione di SARS-CoV-2 sia inferiore all’esterno, ma ci sono lacune significative nella comprensione del fenomeno.
Stiamo sbagliando a comunicare i rischi sul contagio?
È tuttavia assodato che i luoghi chiusi ci espongono ad una probabilità di infezione enormemente più elevata rispetto agli ambienti esterni. Zeynep Tufekci, sociologa e docente presso la School of Information and Library Science dell’Università del North Carolina, insiste da tempo sul fatto che la comunicazione sui rischi del contagio sia stata fuorviante.
Perché insistere sull’importanza di restare a casa se i luoghi esterni – a patto di osservare le solite regole di buonsenso – sono più sicuri delle mura domestiche?
Eppure, spiegava Tufekci a febbraio,
“continuiamo a dire alle persone di indossare una mascherina e restare a casa. Non è quello che dovremmo fare a questo punto della pandemia”. Questo modo di comunicare, basato su informazioni parzialmente fuorvianti, è “assolutamente controproducente”, perché “se non ti fidi delle persone” loro “non si fideranno di te. E non c’è niente di più importante nella comunicazione sulla salute pubblica che conquistare la fiducia delle persone”.
Tufekci cita a mo’ di esempio le spiagge che, dice, sono “probabilmente il posto più sicuro in cui si ci si può trovare in una pandemia” e che pure sono state additate come luoghi a rischio contagio. Da qui la domanda: ha senso sconsigliare (o impedire) alla persone di frequentare parchi, spiagge e altri ambienti all’aperto? Secondo la sociologa le autorità dovrebbero smetterla di ragionare in termini paternalistici. “Non stiamo parlando di bambini piccoli, ma di adulti” che andrebbero messi al corrente dei rischi affinché, osserva Tufekci, siano in grado di decidere da soli se una situazione può essere o meno di pericolo.
La verità sui contagi all’aperto. Uno studio adesso ribalta tutto
Cosa dicono gli esperti
Questi risultati hanno lasciato a bocca aperta anche gli addetti ai lavori: il Prof. Liam Fanning, immunovirologo dell’University College di Cork, ha affermato che gli incontri faccia a faccia all’aperto comportano sempre un rischio se c’è una persona asintomatica sottolineando, però, che i dati sono “rassicuranti e che i supporti finanziari per incoraggiare i pasti all’aperto dovrebbero essere molto più alti in modo che l’Irlanda possa diventare una società di ristorazione all’aperto“. La stessa riflessione dovrebbe essere fatta anche in Italia, con i luoghi della ristorazione chiusi ormai da tempo immemore. Anche Ed Lavelle, professore di biochimica al Trinity College di Dublino e dal 2013 presidente della Società irlandese di Immunologia, ha affermato che “i risultati convalidano molte delle tesi provenienti dagli Stati Uniti” e “dimostrano che le attività all’aperto sono sicure. Andare in un bar all’aperto“, ha sottolineato, “è molto sicuro. L’aspetto fondamentale è cosa succede dopo queste attività“, si legge su Liberoquotidiano. Meno ottimista ma oggettiva la collega Orla Hegarty, secondo la quale “all’aperto il rischio di contagio è basso, perché», ha spiegato, “a meno che tu non sia vicino a qualcuno infetto, la maggior parte del virus viene spazzato via dall’aria, come avviene per il fumo della sigaretta“.
L’Irlanda riapre
Sulla base di questi dati, il governo irlandese ha deciso la riapertura delle attività all’aperto dal 26 aprile oltre ad alcuni luoghi turistici e tutti i locali con spazi esterni. Il ministro del Turismo, Catherine Martin, ha messo a disposizione l’equivalente di 17 milioni di euro per i ristoratori che vogliono ampliare i loro spazi all’esterno. Se ce ne fosse bisogno, a dimostrare in modo definitivo che stare in luoghi aperti è, di per sè, il vero anti-Covid, l’Università della California è arrivata alla conclusione che la possibilità di contrarre il Covid in un ambiente chiuso è 19 volte superiore. Evidenze arrivano anche da uno studio cinese che ha dimostrato come, su 1.245 casi in Cina, soltanto tre persone sono state infettate all’aperto e, tra l’altro, stavano conversando senza indossare le mascherine. “La nostra conclusione è che in molti settori, e per molte dimensioni e formati, dovrebbe essere possibile mettere in atto adeguate mitigazioni basate sull’evidenza per fornire eventi e attività all’aperto in un modo che non aumenti il rischio dalla trasmissione sporadica all’epidemia di cluster“.